Ogni tanto mi piace aprire la porta dei ricordi, forse perché ho già vissuto una buona fetta di vita o magari
perché mi sento coccolata dal loro calore. Nell’era digitale, dove viviamo di ore che non bastano, ogni tanto
mi fermo e fermo pure il tempo, per pensare al decorso della mia esistenza. Sistemando il fiocco all’apice
dell’albero di Natale, mi sembrò di vivere un dejavù, una sensazione precedentemente vissuta che mi riportò
negli anni in cui frequentavo la scuola elementare. La sera precedente avevamo finito di addobbare l’albero.
Con gli occhi stropicciati, i capelli arruffati, ma con il cuore pieno di buoni propositi, il mattino seguente, mi
dirigevo verso il tavolo della cucina dove mi aspettava con tanto calore, una tazza stracolma di latte e pazzi di
pane gonfie come soffici nuvole. Per me era una tortura deglutirlo ma mia madre mi costringeva a buttarlo
giù. Sul mobiletto accanto alla TV vi era riposta una radio, dalla quale giungevano, alle mie orecchie, le canzoni
degli anni sessanta che i miei genitori spesso ascoltavano. Mina, Gianni Morandi, Massimo Ranieri, Orietta
Berti erano i nostri compagni di vita che allietavano le nostre giornate. I programmi sullo schermo in bianco
e nero, venivano trasmessi durante poche ore ma nonostante ciò, quel televisore, era motivo di orgoglio per
i miei genitori perchè non tutti i vicini di casa ne possedevano uno. Accanto a me, mia sorella più piccola di
quattro anni, mi guardava con il sorriso stampato sulle labbra e le guanciotte rosse, felice di condividere quei
momenti per noi preziosi. “Su sbrigatevi” disse quel giorno mia mamma “dovete preparare la valigia”. Durante
le vacanze di Natale, ci accompagnavano a casa degli zii a Ragusa per vivere la festa insieme ai cugini. La
sorella di mia madre aveva sposato un uomo ragusano e si era trasferita in città. Nonostante la distanza dal
paese, erano rimaste molto legate ed avevano trasmesso ai figli un grande senso di rispetto per i rapporti
familiari. Dopo aver fatto la corsa per guadagnarci il bagno, ci vestivamo di fretta perchè eccitate dalla voglia
di arrivare presto. Durante il tragitto, immaginavo di trascorrere dei giorni indimenticabili e così era. Dopo
un’ora di viaggio, si mostrava ai miei occhi un paesaggio diverso da quello in cui vivevo. Dal finestrino
osservavo i recinti di muretti a secco che accoglievano i pascoli, dove i muggiti risuonavano nell’ aria, la
campagna appariva verdeggiante e ricca di odori, tra i quali quello del muschio che lasciava apprezzare
l’umidità del mattino. Viaggiavamo con la Bianchina di colore Bordeaux dentro la quale non esistevano le
cinture, lo sterzo era rigido e si sentiva il cigolio del metallo quando durante il percorso mio padre era
costretto a prendere qualche buca. In contrada Cifali, davanti a un cancello, la seicento bianca degli zii ci
attendeva. “Presto scendiamo, finalmente siamo arrivati” dicevo a mia sorella. A quel punto, mi identificavo
nel personaggio di una favola. Nonostante il gelido, vento mi catapultavo in una bellissima avventura da tanto
tempo attesa: la visita della fattoria. I miei cugini dopo averci accolti calorosamente, facevano da guida per
mostrarci, come prima tappa dell’itinerario, il pollaio, dove un fragoroso rumore di galline che crocchiavano
e l’odore della paglia che le ospitava, mi portavano in un mondo magico come lo era quel tratto di strada
pieno di alberi ricche di fronde che ci conduceva verso la casetta dei conigli i quali zigavano per paura di essere
presi. Dopo aver raccolto le uova fresche ci dirigevamo verso la cucina per farci preparare una deliziosa
frittata. La nonna dei miei cugini, era una signora attempata, stava seduta con un vestito nero che strisciava
sul pavimento e un fazzoletto al capo per ripararsi dal freddo. Il nonno andava a raccogliere la legna per ardere
il forno dal quale, di li a poco, sarebbero state sfornate deliziose pietanze. Pane e biscotti “scaniati” erano la
sua specialità, seguiti dalle scacce farcite al ragù e da cassate di ricotta spolverate di cannella profumata. La
tavola, bandita di tutto punto, con tovaglia di lino ricamata a mano, dava un tocco di eleganza alla cucina
vintage di color legno scuro. Dentro la credenza, si potevano ammirare i piatti e le tazzine di porcellana bianca
decorati con fiorellini di mughetto che venivano utilizzati solo per le feste. Mentre su un mobile antico accanto
ad un lume ad olio spiccava la foto, color seppia, di due signori che indossano abiti eleganti durante il giorno
delle loro nozze. Dopo aver deliziato il nostro palato, ci incrociavamo come in un cocicchio, attorno al braciere,
dove la nonnina ci raccontava storie di draghi e uomini rubacuori. All’imbrunire salivamo tutti in auto per
trasferirci in città. La camera degli ospiti era ben pulita e profumata corredata di due lettini dove dormivamo
io e mia sorella. Accanto ad essa, un bagno antico con un lavabo rotondo e un rubinetto in bronzo , veniva
riservato a noi. Esso dava su un cortile sul quale si affacciava una finestra alta e piccola che mi incuteva un pó
di paura. Dopo aver lavato i denti infatti, mi infilavo presto sotto le lenzuola che profumavano di sapone di
marsiglia, dove spesso mia sorella veniva accanto a me per farsi raccontare qualche storia. L’odore del
caffelatte, ci risvegliava, invitandoci a vivere un nuovo giorno ricco di emozioni. La domenica mattina era
d’obbligo andare a messa nella chiesa Ecce Homo, dove mio cugino faceva da chierichetto. In realtà tutto era
tranne che un santo ragazzo. Il pomeriggio ci portava in giro a piedi e con il freddo pungente ci faceva
attraversare la strada che portava dal Corso Italia a Ragusa Ibla. Durante il percorso amava suonare i
campanelli delle abitazioni e ogni tanto rovesciava gli scaldini che le vecchie signore ponevano davanti
all’uscio per far riardere i carboni. In tal modo ci costringeva a scappare e tra la corsa e il freddo giungevamo
ad Ibla nel più breve tempo possibile. Ed ecco che ai miei occhi, come d’incanto, si mostrava un bellissimo
presepe, una città antica, ricca, in stile barocco che mi faceva prendere consapevolezza di quanto bella fosse
la mia isola. Le tappe erano: l’imponente chiesa di San Giorgio che dominava sui palazzi antichi impreziositi
da splendidi giardini, al centro dei quali ci guidava una lunga strada, dove ogni mattone sembrava raccontarci
una storia. Alla fine di essa, nella villa ben curata, ci attendeva una bellissima chiesetta incastonata tra il
verde, dove mio cugino pregava, forse per discolparsi dalle marachelle che aveva combinato. A quel punto
tornavamo a casa esausti e infreddoliti ma soddisfatti di aver vissuto tante belle avventure. Alla fine della
nostra vacanza ripartivo con la tristezza nel cuore, un magone mi stringeva la gola facevandomi singhiozzare
mentre cercavo di trattenere i lacrimoni, per non farmi vedere dai miei genitori. Nel contempo nutrivo nel
cuore la speranza di tornare presto e portavo con me un bagaglio ricco di ricordi che avrei custodito, con cura,
per il resto della mia vita
Autore: Mirella Spinello
Dipinto: Adriana Iacono olio su tela cm. 40×80