Nonna Rosaria, da piccola trascorrevo sempre qualche giorno dell’afosa estate insieme a te, per farti compagnia e lenire la solitudine. Mi preparavi il divano di pelle rossa del soggiorno che diventava un letto, comprato nell’eventualità di qualche breve soggiorno dei nipoti. Il frizzante garrire era incessante ogni pomeriggio a casa tua in centro, mentre fremevo affinché aprisse la “putia” all’angolo opposto e poter comprare, con le mille lire che mi davi, la coppetta alla vaniglia con la stella di cacao al centro. Per l’ingorda e infantile impellenza spiavo dal balcone, attraverso il profumo abbacinante del gelsomino, l’alzarsi della saracinesca della bottega, per poi precipitarmi lì e tornare, in pochi minuti, con l’acquolina in bocca. Appena rientrata, mi esortavi con un sorriso, dicendo: “Nun t’allurdiari a nonnuzza”. Da bimba avevi fatto l’“avviamento”, scuola professionale che permetteva a chi conseguiva la licenza elementare di continuare gli studi e, seppur sagace e dotata, hai scelto di essere moglie e madre. Ti eri innamorata profondamente del nonno Giuseppe, per amor suo, accettasti perfino di prenderti cura di sua madre, costretta su una sedia a rotelle. La fatica era tanta, come il pacato sentimento che vi univa. Tenacia, determinazione e altruismo erano le tue doti, perché eri una “ciaraula”, “nciuria” (soprannome siciliano) della tua famiglia, i “Licitra”. Secondo le credenze popolari sicule, i ciarauli guarivano, grazie al potere taumaturgico della saliva, dal morso di serpenti o addirittura dal fuoco di Sant’Antonio, attraverso un rituale in tre incontri, fatto di scongiuri e incantesimi, concluso con il segno della croce. Questi saperi venivano tramandati dall’esperto guaritore ai bimbi nati tra il 24 e il 25 gennaio, giorno della Conversione di San Paolo. Tale “lascito” avveniva una volta l’anno, nella notte di Natale. A proposito della “nciuria”, mamma racconta che una volta una zingara, di passaggio a casa vostra, stava abbindolando il nonno con la lettura della mano, quando sopraggiungesti tu e le dicesti: “Grazie nun aviemu abbisuognu”. La girovaga, dopo averti fissato, disse: “Mizzica, chi siti ciaraula?”. E la nonna rispose: “Di nome e di fatto! Tiniti stu pani e itavinni”, porgendole l’alimento su cui aveva gettato una manciata di sale grosso contro il malocchio. Non so se qualche avo fosse stato davvero un guaritore; tu non lo sei stata letteralmente; però, da ciaraula cercavi di lenire sempre l’altrui dolore. In soli cinquanta giorni un cancro ai polmoni si è portato via nonno, lasciandoti vedova a quarant’anni; eppure ti sei rialzata, hai cresciuto tre figli, hai visto nascere tutti noi nipoti. Poi, ecco insinuarsi la demenza, strisciante e subdola ladra che velava di profondo oblio i tuoi occhi quando si posavano su di noi e, invece, intatti e vividi, i ricordi di una vita alla vista di una foto in bianco e nero; penosa condanna per te che dai ricordi avevi tratto linfa per sopravvivere.
Autore: Lorena Galfo
Dipinto: Milena Nicosia