La chiamavo Nena


Nena La chiamavo Nena. Ormai nessuno lo ricorda. Era la sincrasi della parola nonna e del suo nome, Lina. Ma niente è mai come sembra: non era mia nonna e neppure si chiamava così, il suo vero nome era Paola. Mi ci vollero sette anni di vita per scoprirlo. Fu allora che cominciai a mettere in dubbio ogni cosa e, tartassando di domande tutto il parentado, venni a sapere che neanche nonno si chiamava Nino: Il suo nome vero era Gavino. Però la sorpresa più grossa arrivò di lì a poco con Assunta: appresi che non era la loro figlia ma una “donna di servizio”. Ora si direbbe “collaboratrice familiare”, ma a quei tempi si chiamava così. Scavando ancora appresi che mia nonna Mercedes, quella vera, la sorella di Nena, era morta prima della mia nascita e che i genitori di Assunta, la mia seconda mamma, vivevano in un piccolo paesino senza nome a circa trecento chilometri di distanza da Alghero. Il punto è che sia io che Assunta ci sentivamo ugualmente parte di quella famiglia e quando dovevamo confessare ad estranei di non essere figlia e nipote di Lina e Nino, lo facevamo con lo stesso pudore che Nena usava nel trattare questo tipo di faccende. La nostra era una famiglia molto allargata e quando ci riunivamo a casa di Nena per la festa di Natale o di Ferragosto, davanti al camino o sotto il pergolato, era necessario unire tanti tavoli. Comporli era più difficile che risolvere il tangram del cappellaio pazzo. Dopo quei pranzi infiniti, io seguivo mio nonno che si rintanava nella penombra del salotto per schiacciare un sonnellino e lo supplicavo di raccontarmi ancora un pezzetto della sua favola, la più bella che avessi mai sentito. Alice aveva seguito il bianconiglio oltre gli specchi della giostra ed era caduta sotto terra, aveva poi incontrato Cerbero, Caronte – un demonio dagli occhi di brace – e tantissimi altri mostri, uno più spaventoso dell’altro. Dovevo assolutamente sapere se Alice sarebbe sopravvissuta a quella terribile avventura. Poi, passati molti anni, quando ormai frequentavo il liceo e mia madre, quella vera, si era fatta una sua famiglia, appresi con stupore che la favola di nonno Nino non era affatto sua. A pensarci bene, anche la favola di Nena incominciava a sbiadirsi come la sua chioma nera e nessuno di noi si frequentava più come un tempo. Io però continuai ad andare a trovarli sino alla fine. Un giorno, quando sia lei che nonno avevano ormai più di ottant’anni, mi trovai a passeggiare nel giardino e, dalla finestra, li scorsi per caso mentre si scambiavano un lungo bacio. Ora che anche i miei capelli sono grigi, ho la netta sensazione che sia stato proprio quel bacio a suggellare la mia eterna solitudine.

Autore: Fanfellu Mercedes

Dipinto: Simone Favero