Nell’ingresso di casa, che altro non è che la zona giorno, c’è una cornice d’argento vicino a un lume. Dentro questa cornice d’argento, fa bella mostra una fotografia. Una fotografia in bianco e nero, sul retro della foto c’è ancora visibile una data e il luogo dove venne scattata. Messina 1955, nessun’altra informazione. Lei sta lì elegantissima con un tailleur nero al ginocchio e con la giacca che fa una balza sui fianchi, sorride, di un sorriso aperto, indossa guanti e al polso ha una piccolissima borsa che si sposa bene con le scarpe. Nella foto c’è come un ventaglio di luce alle sue spalle che non è dato sapere se siano foglie o una finestra e i suoi prodigiosi giochi di ombra, quelle proiezioni armoniche e illusorie di una cosa che non è mai in fondo come la si vede, ma solo di come la si sogna. Nella foto in bianco e nero i colori si possono solo immaginare, ma i suoi occhi sono verdi e il rossetto a cornice del suo sorriso rigorosamente rosso.
Lei ha davvero un’aria sognante e ai tempi certamente frequentava la facoltà del Magistero. All’università s’era iscritta troppo grande le dicevano, inappropriato le dicevano fino al ridicolo, aveva i suoi trent’anni ed era già maestra.
Non le era stato facile arrivare a varcare le soglie dell’ateneo, non era pensabile che all’epoca una donna di quell’età, “fuori tempo”, studiasse ancora. Anzi peggio ancora iniziasse.
Alla sua caparbia si devono le licenze elementari di non si sa quanti bambini raccolti lungo le campagne desolate, prive di strade di comunicazione, prive di ogni forma di civiltà per come la riteniamo. Di un sud così a sud che dopo questo sud esiste solo l’Africa. Lei li andava a prendere, nelle loro casette spesso sgarrupate, si recava a piedi e li accompagnava tutti festanti e di età diverse in quella che avrebbe dovuto essere l’aula di scuola: la sussidiaria.
Li aveva appassionati e soprattutto alfabetizzati, gli aveva insegnato a fare di conto, a leggere e a scrivere. Non era stato facile esser sempre puntuali in quell’aula a suono della campanella. Aveva sfidato le piogge, freddo e il fango e soprattutto, aveva sfidato lo zoccolo duro di una mentalità dura a morire. Secondo cui, non solo se nasci in un posto devi assolutamente restare in quel posto, nemmeno si fosse stati alberi secolari dalle radici intrecciate e fuse al sacro cuore della crosta terrestre, soprattutto aveva sfidato la concezione che si poteva esser altro da se stessi, o meglio da ciò che gli altri avevano stabilito si dovesse essere. Perché non era una verità dogmatica che se si nascesse contadini si dovesse continuare ad esserlo. Qualche suo alunno è diventato dottore, qualcun altro avvocato, ha avuto una miriade di bambini imbrattati di gesso e inchiostro e di intricate situazioni personali o estrazioni sociali. Ma a tutti aveva garantito la stessa cosa: il suo meglio. Dare solide basi per affrontare la vita. Perché ciò che si impara alle elementari è ciò che forma. E’ ciò che resta. Come la postura di una mano nella firma. E come altre cose inspiegabili come: un odore dentro una cartella, come il sapore delle briciole di una torta di un compleanno, come la canzone di una festa di carnevale, un abito e una maschera. Come la prima volta ad una recita su un palco mentre si hanno tutti gli occhi puntati e la memoria si fa ballerina con la voce tremante, ma se si hanno due occhi che di sbieco, discreti, nascosti in un sipario improvvisato, fissano i tuoi, allora sei sereno, invincibile, allora sai che quella voce uscirà dalla gola, sai che sono sue le prime mani che ti applaudiranno. Perché c’è qualcuno che crede in te prima di te. All’epoca mica lo sapeva che era una specie di eroina coraggiosa. Era infagottata con i suoi cappotti pesanti quando viveva in un piccolo paesino che a stento esiste ancora, forse, nella carta geografica del Piemonte, Brozolo, e la sua stanzetta in cui viveva, in pensione. Altro il luogo non offriva, l’unica possibile che assomigliava tanto a una soffitta umida uscita né più e né meno da un’opera lirica. Con Mimì dalla gelida manina. E lei di opere liriche se ne intendeva, aveva una bella voce, sarebbe stata soprano se uno dei suoi talenti lo avesse potuto assecondare, ma spesso le fu impedito di scegliere, come anche in questa. Non stava bene che una donna intraprendesse l’arte. E la sua vita iniziava a farsi come uno scialle impunturato di piccole rinunce che man mano scoprì con gli anni esser diventati rimpianti. Ma non aveva mai smesso di amare la vita, di avere un’intensa curiosità verso il mondo. E nessuno poté mai proibirle di diventare una viaggiatrice.
Certo fu ribelle. All’epoca in cui il marito alla donna in molti casi lo sceglieva il padre e l’amore era tutto un fatto combinato. Nessuno era degno della sua mano, a detta del suo. E questa fu la sua sentenza. Eh ma neppure questo le impedì né di innamorarsi, né di scrivere lettere, lunghissime lettere che formano oggi un carteggio, che mai nessuno per pudore ha mai osato violare. Stanno lì bizzarramente in una zuppiera, di un servizio nemmeno tanto buono, di una credenza. Si dice lui sia stato un nobile, si dice vivesse in una tenuta, si dice avesse sostituito l’insostituibile del suo cuore. Un altro amore. Era troppo giovane per lei, non si poteva stare insieme, non poteva una donna esser più grande del suo compagno. Non si addiceva nel 1955. E per l’ennesima volta il suo cuore dovette farsi piccolo fino a scomparire.
Il trascorrere degli anni una sola cosa non mutò mai, il modo in cui tutti la chiamavano:
“ la signorina” e poco importava se avesse 80 anni o poco più.
E nel fondo di un cassetto si sono addormentati i suoi occhiali spessi e ago e filo, perché amava ricamare e proprio il ricamo fu una delle cause dell’abbassamento vertiginoso della sua vista.
Restano in quella stessa stanza appesi e leggeri, mossi dal vento, come fluttuanti ad ombreggiare le pareti degli angeli a punto pieno. Come segno che è sempre lì presente, come cosa viva in altre cose vive. Come animasse i fuochi di una cucina ancora con le sue pentole, come se fosse sua la stola bordata di visone indossata per un ballo in un castello. Quello che non si è ancora detto è che ci sono molti modi per essere madre e lei indubbiamente lo è stata, lo è stata per me, parte scrivente, che ha imparato a tracciare il suo nome sgangherato, la prima vocale in stampatello con una calligrafia incerta e pigra su un foglio da prima elementare.
Autore: Elisa Cilona
Dipinto: Claudia Clemente