Una storia triste non lo è mai del tutto

L’Europa bruciava sotto il fuoco della seconda guerra mondiale, ed io ero ancora molto piccolo quando mio padre, ad un certo punto, fu richiamato alle armi. Lui che era stato capitano di artiglieria e poi avvocato a Roma, quando ho deciso di nascere io, ritornò a casa, a Modica, insieme a mia mia madre. Lei voleva infatti partorirmi in Sicilia.

Lui che fu l’ultimo podestà nel 1939 e dunque primo sindaco di Modica, esautorato dai federali fascisti perché fece arrestare un gruppo di squadristi dediti all’olio di ricino e alle botte facili, fu richiamato alle armi e si ritrovò, a quasi quarant’anni, ad Avellino in un campo di istruzione per artiglieri. Lì riprese ad usare le armi. E si meravigliava per come l’Italia, sottomessa dai tedeschi, affidasse la sua resistenza a cannoni di legno piazzati dentro le casamatte “…come ci possiamo difendere così?” continuava a ripetere. Nel 1942 fu trasferito a Palermo e assegnato nel Comando Generale del Corpo di Armata della Sicilia, guidato dal Generale Davì. Il Generale lo nominò aiutante di corpo dell’armata a Palermo, ed è lì che una mattina di luglio arrivò una telefonata: “Stanno sbarcando! Gli americani!”. La guerra continuava, crudele, e per ben due volte papà mio si ritrovò sotto le macerie al riparo delle arcate del palazzo che fungeva da base militare. Tante volte chiamarono Roma per avere disposizioni, ma la risposta era sempre la stessa: “Vi faremo sapere” … Nella confusione più totale, con il Generale Davì a Roma al Comando Generale, mio padre rimase a dirigere i suoi uomini senza riuscire ad ottenere indicazioni precise, fino a quando gli ordinarono di ritirare le truppe per prevenire eccidi come quelli accaduti ad Acate.

E fu così che a papà mio toccò guidare la ritirata e attraversare lo Stretto per ultimo, portando con sè tutti i documenti militari del Comando. Piangeva, ogni volta che gli capitava di raccontare che erano partiti in 120 e, attraversando lo stretto, erano rimasti in 11: le zattere erano state ripetutamente mitragliate dagli aeroplani tedeschi in volo. Al suo fianco, fedele compagno di sventura, il suo assistente personale: Turiddu Tona, un giovane che in seguito resterà a servizio della nostra famiglia per tutta la vita. Durante la traversata, stettero abbracciati per farsi forza e vincere la paura. Tanto era stato il turbamento emotivo che, una volta approdati in Calabria, mio padre si accorse che i capelli di Turiddu erano diventati tutti bianchi. È con lui che, durante la ritirata, finì catturato dagli Alleati e imprigionato in un campo di concentramento tra Napoli e Lecce. Arrivò il tempo della Liberazione: papà mio e Turiddu riacquistarono l’agognata libertà e raggiunsero Foggia con mezzi di fortuna. Lì abitava mio zio. Ci vollero quattro mesi per riuscire a tornare nella nostra casa di Modica, in Corso Umberto. Nel frattempo era nata mia sorella, che ancora non aveva conosciuto il suo papà. Che emozione bellissima quel giorno! Bussarono alla porta ed era papà mio! Mia madre lo abbracciò forte e subito dopo gli disse che “Che brutto sei senza baffi!”. E lui se li fece ricrescere. Papà mio: Ernesto Pinzero.

Con gli occhi di un bambino, ora, come allora.

Autore: Lorenzo Pinzero

Dipinto: Milena Nicosia