Vannineda

Ero l’ultima di una modesta famiglia di contadini e vivevo una vita semplice ma serena, il cui unico svago era a sera nei racconti dei grandi. 

Quella poca serenità finì con la morte di mia madre. Mio padre, sebbene piegato dal dolore, raddrizzò la schiena e per amore dei figli riabbracciò la fatica. 

Ancora una volta, però, il destino volle accanirsi: l’Italia entrò in guerra e furono chiamati al fronte mio padre e i miei due fratelli, sebbene ancora molto giovani. Fu inutile spiegare al maresciallo che non potevano partire tutti e tre poiché io ero ancora una bambina e non c’era nessuno a cui affidarmi. La preghiera di mio padre era che almeno uno dei miei fratelli potesse rimanere con me, ma il maresciallo, sebbene addolorato, poté fare ben poco. La legge non teneva conto di queste esigenze. Così, con la morte nel cuore, dovettero partire tutti e tre.

La sera prima, mio papà mi consegnò un gruzzoletto, che non so come era riuscito a procurarsi, e mi spiegò quello che avrei dovuto fare nei giorni seguenti. Mi assicurò che presto almeno uno dei tre sarebbe tornato. Invece, sebbene fosse un uomo di parola, rimasi sola per tutta la guerra.

Ricordo la prima notte. Avevo tanta paura. Mi chiusi dentro ma non riuscii a dormire. Mai prima di allora avevo sentito così tanti rumori fuori.

Quando l’alba finalmente arrivò, ringraziai Dio e provai a ricordare ciò che avevo visto fare a mio padre. Furono tante le volte in cui non riuscii a rifarlo, ma col tempo imparai. Per fortuna, qualche anziano e qualche vicina, vedendomi in difficoltà, spesso mi aiutarono nei lavori più faticosi.

Dovetti imparare a convivere con la paura e la fatica. La sera arrivavo così stanca da non avere il tempo di pensare. Quando il gallo mi svegliava, riprendevo a lavorare, con ogni tempo. La pioggia, il sole, il gelo, la grandine e gli animali, i miei unici compagni di vita, mai mi videro cedere. Non ci riuscì nemmeno la febbre, combattuta senza medicine. Volevo far trovare tutto in ordine per il ritorno di mio padre e dei miei fratelli.

Passarono le settimane, i mesi, le stagioni e gli anni. Della bambina che ero prima della guerra non era rimasto nulla, se non un corpicino esile che non voleva o non poteva crescere. Le mie mani erano minute, è vero, ma la pelle era una scorza dura e ruvida come quella di una vera contadina capace di provvedere a una masseria.

Quando trovavo un po’ di farina, preparavo il pane. Dall’orto e dai miei pochi animali in qualche modo mi procuravo ogni giorno qualcosina da mangiare, ma qualche volta mi capitò di dover patire la fame. 

Spesso, a piedi, andavo alla stazione, nella speranza di trovarvi qualche lettera dei miei, ma erano sempre viaggi a vuoto. Che delusione!

Quando la guerra finì, attesi per giorni interi, con gli occhi fissi sulla strada, mio padre e i miei fratelli. Finché un giorno il mio sogno fu esaudito, almeno in parte. Mio padre e Angelo tornarono a casa, sebbene molto sciupati e invecchiati. L’altro mio fratello, invece, non tornò mai più.