E’ l’ora

La telefonata di Sara non lasciava adito a dubbi: “È ora … è il momento”.

Il collega e amico di sempre decifrò il mio sguardo e mi lasciò andare coprendo il mio turno nonostante la stanchezza. Con la divisa appena indossata andai. Il viaggio verso casa si prevedeva più lungo del previsto, all’ora di punta non è consigliabile usare l’auto. Trovai un parcheggio, abbandonai l’auto e continuai a piedi. Intrapresi quelle strade che per anni avevo percorso con i miei amici tornando da scuola. Alcuni ricordi affioravano, e la mia mente si focalizzò su uno in particolare: rividi Tonino in preda ad una crisi epilettica accasciarsi a terra, e, tremante, trascinarsi sotto la Panda rossa in sosta proprio lì dove ci trovavamo. Ricordo come il panico mi portò a gridare aiuto e come la mia voce sembrava non volere uscire, una voce stridula come se qualcuno stesse stringendo le mie corde vocali. Fortunatamente un medico che aveva assistito alla scena era corso in aiuto salvando Tonino dalla possibile deglutizione della lingua. Quel medico sapeva esattamente cosa fare e fu probabilmente quello il momento in cui decisi che sarei diventato infermiere. Perseguì l’obiettivo senza mai ripensamenti.

Quante situazioni di sofferenza ho affrontato, e quante persone ho visto riprendersi e tante andar via. Inizialmente le sofferenze altrui mi toccavano nel profondo senza che io riuscissi a liberarmene, poi pian piano imparai a distaccarmi dagli eventi e a dare a questi il giusto peso senza venirne sopraffatto. E ci riuscì al punto tale che temetti di esser diventato cinico, ma il servizio nell’unità speciale di accoglienza permanente per malati in stato vegetativo, ed un bambino di cinque anni, che lì era ricoverato, mi fecero capire che non lo ero diventato, semplicemente avevo sviluppato una buona corazza, che di fronte ad un bambino si scalfiva. Ce l’avrei fatta anche questa volta.

Intravidi casa mia e accelerai il passo. Trafilato entrai e mi precipitai da lei. Mi riconobbe, le presi la mano, lei accennò ad un sorriso che non le riuscì bene, il respiro era affannoso, ma c’era ancora tempo.

Tempo per cosa? Forse per dire tutto quello che non ho mai detto? Per scusarmi di tutte le mancanze, i dispiaceri o le e pretese. Scusa per l’irriconoscenza della sua impareggiabile pazienza, e per dire grazie ad una donna dal sorriso sempre pronto, capace di donarsi fino all’ultimo, anche se costretta a letto, in una mitezza impopolare per il nostro tempo.

Perché solo ora?

Eravamo tutti lì incapaci ed impotenti. Le presi la mano, era fredda. Osservai i polpastrelli delle dita della mano, iniziavano a diventare viola. Allungai lo sguardo verso i piedi coperti dal lenzuolo, li scoprii, li toccai, anche quelli erano freddi e violacea la punta delle dita. Appoggiai la mano sul petto e contai a mente: uno, due, tre, quattro, cinque sei atti respiratori in dieci secondi …  Troppi.

Avevo gli occhi di tutti puntati addosso, mi guardavano come se potessi operare il miracolo, ma la divisa bianca e candida, non faceva di me un angelo.

<<Come sta?>> domandò Sara. <<È il momento?>>

<<No>> Mentii, non so perché. Uscii dalla stanza e andai da mio padre che stava fuori, solo, a fare i conti  con il passato e con ciò che stava accadendo, lo ascoltai.

Dopo circa una mezz’ora sentii Sara e gli altri che dicevano: <<Venite, venite è ora.>>

Accompagnai mio padre da lei, assistemmo insieme agli ultimi rantoli. Spirò e scoppiai in lacrime come un bambino,  il mio pianto era come soffocato da un nodo in gola, sentii la mia corazza cadere in pezzi e di colpo mi trovai indifeso e orfano.

Autore: Valentina Terranova

Dipinto: Adriana Iacono