Paola

Paola si trasferì col suo sposo a 25 anni compiuti e con poche illusioni nella valigia di pelle marrone. Non poteva immaginare che in quella città avrebbe affondato radici e sarebbe stata felice per i 10 anni successivi, fino a quando il destino non le si sarebbe scompigliato addosso. Per ragioni non note i primi tempi viveva col corpo in quella terra che non sentiva sua ma col cuore nel suo paese dei fichidindia al centro della Sicilia. Era abituata a saltellare con le amiche nelle strade di basolati informi ed arrotondati, pregiandosi del fatto che fossero stati gli stessi romani a realizzare le vie del suo paese. Non era più il tempo per saltellare, era il momento per camminare da sola in strade nuove, ampie ed asfaltate. La città che la accoglieva si espandeva con una edilizia in crescita, tanti cantieri e palazzi e piazze e ville, espressioni in cemento di pianificazioni su fogli ben disegnati. Col passare del tempo cominciò a progettare anche lei, a costruire una vita nuova. La sua. Tra i bozzetti iniziali e gli schizzi preparatori, un imprevisto. Un’improvvisa inversione di marcia fece crollare il piano del castello di carta e quello dei buoni propositi. Un incidente. Il giorno del suo anniversario di nozze. In una terra che non vestiva ancora bene fu costretta ad indossare quello che per lei fu il peggior flagello di una donna: la solitudine. Improvvisamente sola con tre piccole parti della sua carne che giravano per casa. Due giorni per abituarsi all’assenza, il terzo aveva sepolto il corpo dello sposo e con lui il sorriso. Quell’inusuale dolore le faceva venire i crampi alla pancia e iniziò a piegarsi trattenendo il respiro. Più si contraeva per respingere i nodi allo stomaco, più il suo volto si abituava ad osservare la terra sulla quale camminava e si scordò di guardare il cielo la sera. I suoi desideri non si arrampicavano più sulle stelle ma si erano fermati sulle mani. “Fate, non sognate piccole mie” ci ripeteva sempre ammonendoci una per una con l’anulare della mano destra. Mai con la sinistra che custodiva l’anello dorato, la fede, che aveva sentito il giuramento solenne, “finchè morte non ci separi…” L’altra fede la stava per perdere, anche se ben presto dovette ricredersi. Riacquistato una forma di equilibrio per condurre la carovana, lei in testa, iniziò a fare e fare, con l’unica cosa su cui poteva contare: le sue mani. Aveva mani bellissime. Sottili e sensuali che curava con attenzione la sera ed il mattino mettendo sopra una crema dall’odore inconfondibile di casa. Per me quell’odore ancora oggi è casa. E con le mani fece. Un lavoro da insegnante. Un nido. Fece di tre bambine tre donne. Non si sentiva nella condizione di poter perdere tempo né perdersi in sogni ed io pensavo che era questo il motivo del suo passo spedito quando camminava. Lei sfidava il soffio della vita, non voleva avere niente e nessuno addosso. Decideva cosa fare, che strada prendere e dove svoltare. Il destino stavolta doveva rincorrerla per toccarle le carni e modificare il percorso deciso da lei. Si sentiva ostile al tempo ma non si accorse che lui avanzava schivando ostacoli e che lentamente le scioglieva i lacci di quella rigida armatura che faceva di lei una guerriera urbana.
Non seppe mai quale fu il momento esatto in cui decise di deporre le armi al suo fianco e guardarsi intorno, ma certamente sette piccole creature, frutti dell’albero della sua vita, la aiutarono a rivedere la sua opinione riguardo gli angeli e i diavoli. Custodi. Esistevano. E l’avevano accompagnata nella sua corsa. Una corsa da velocisti sicuramente ma non si può correre sempre al massimo. Bisogna rallentare per prendere aria. E fu in quella frazione di secondo, in quell’attimo esatto che si insinuò una riflessione, un pensiero sul quale coccolarsi: forse c’era ancora spazio per tirar fuori quel sorriso sgangherato e riprendersi un tempo che aveva considerato nemico. Era il momento di vivere in quella che adesso considerava la sua città, di respirare a pieni polmoni e trovare l’ossigeno per ardere nuovamente. Era il momento di considerare il passato storia. Il presente è altra cosa e brilla ed ha bisogno di essere lustrato per splendere. Tu, mamma, questo me lo hai insegnato bene. Con le stesse mani che ti ho sempre invidiato ci hai distribuito il tuo arsenale e realizzato scarpette di onestà, coerenza e femminilità e con quelle andiamo avanti come ci hai insegnato tu, seguendo le tracce segnate dal nostro passato.

Autore: Lorena Figurino Gangitano

Dipinto: Simone Favero