Treni lunghissimi

Mia madre portava cappotti bianchi e colli di pelliccia. Guanti di pelle rossa e sciarpe di velluto. Aveva una banda di capelli neri che aggiustava spesso con le sue dita lunghissime. Mani sul viso come farfalle. Io odoravo le sue giacche di nascosto, la mattina prima che ci dividessimo per andare a scuola. Il profumo Presage e la cipria Coty. Ed era il modo per distaccarmi da quel mio amore. La paura mi prendeva lenta nelle ore successive, rivedevo i suoi denti e il loro biancore le labbra scostate, di fiamma. Teneva il rossetto nella sua borsa, uno specchietto e il pettine d’oro vero. Un fazzoletto bianco stiratissimo, la foto di me bambina in posa vezzosa. Partivamo io e lei. Prendevamo treni lunghissimi per andare a Milano, la notte trascorsa insieme in cuccette strette dai sedili unti. Lei mi teneva la mano. Io non la lasciavo mai. Era il primo amore. Era il tutto della mia vita breve. Accarezzavo le sue braccia scoperte, lei cantava dondolando la testa, gli occhi leggeri. La pelle bruna di siciliana, dichi ha visto il mare tutti i giorni. Passeggiavamo per la città, sostavamo alle vetrine, tornavamo lentamente a casa. Io vicina a lei. Faceva la maestra e ne era felice. Andavo a trovarla. Camminava alta nei corridoi della scuola, fendendo aria e cuori dibimbi. La attendevo nei giorni di pioggia: stringeva il suo cappotto, mi tendeva la mano e così strette andavamo.Quando si ammalò era primavera e poi si fece estate presto. La accompagnavo negli ospedali di grandi città lontane. La lasciavo lì, lei consenziente e abbattuta. Dimenticando il mare e la casa. Milano nelle sere d’autunno, le sue strade e i negozi le insegne e i bar. Messina e i suoi viali, la costa illuminata e la guerra. Si ammalò mentre era ancora felice. Stavamo nei treni e dormiva esausta, non pensava ai medici che avremmo incontrato, alle cure da fare. Guardavamo dai finestrini la Sicilia che scompariva veloce. Sfogliavamo giornali. Portava sempre un foulard al collo. Le medicine non servivano. Gli interventi chirurgici si susseguivano. Diventarono troppi. Stavamo insieme. Spesso sorridevamo. Spesso ricordavamo. Aveva forti nostalgie, cantava e dimenticava il brutto della malattia. Io continuavo ad odorare i suoi cappotti. Ad aprire gli armadi per sentire il profumo che mi investiva, leggero e denso. Era lei. Era l’infanzia. Giocava con mia figlia dandole piccoli baci sulla fronte, ogni giorno trascorso con lei, con sguardi delicati. Era un amore solo il nostro, che non si divideva. Stava in casa e non se ne lamentava, guardava dalla finestra la città distesa e pensava alla sua che era lontana, al mare dello stretto. L’ultima malattia fu devastante, vergognosa per lei. Le tolse del tutto il sorriso. Le badanti si susseguivano, le necessità aumentavano. Parlavamo sedute sul suo divano preferito e immaginavano un futuro guardando i suoi vestiti appesi che mai più avrebbe indossato. Le scarpe che sarebbero servite alle sue passeggiate, gli specchi che la avrebbero rivista nuova. Perse la memoria piano e poi perse me. E noi. Gridava sul suo letto. Le piaghe nere di liquirizia e pece. Le cure e il nulla. I piedi contorti, la pelle che moriva, lei per prima. E tutto quello che non c’era. La sofferenza era stata lunga, aveva coperto troppo anni. Io la attendevo lo stesso, come nei giorni di pioggia fuori la scuola, quando insieme tornavamo a casa. Morì in un giorno di maggio, facilmente. Con pochi respiri. Ero con lei. Io sola nella stanza in quel momento. Io e lei. Oggi, 6 novembre, giorno del suo compleanno

Autore: Letizia Di Martino

Dipinto: Mario Occhipinti