Abitavamo in una casa di quelle con le scale, non era piccola ma scomoda, si. Lo riconosco
ora perché allora, invece, mi sembrava una bella casa grande. Appena aprivi quel portone di
legno ti ritrovavi davanti ad una larga scala di marmo che ti portava al primo piano dove la
porta che ti si apriva di fronte ti immetteva in un grande salone con il marmo. Da un lato c’era
la classica stanza da pranzo, con il tavolo e le sedie e, sulla sinistra, una vetrina con i servizi
buoni, quello dei bicchieri e quello dei piatti che comprendeva anche il servizio di caffè.
Stavano lì in bella vista senza mai essere usati, presi in mano solo quando facevamo le pulizie
di Pasqua. E allora si tiravano fuori, si lavavano e si rimettevano al loro posto, pronti per non
essere usati.
Dall’altro lato tutto attorno alle pareti, ricoperte da una carta da parati in stile, c’era un divano
che seguiva l’irregolarità delle pareti, era stato il nostro tappezziere di fiducia a realizzarlo.
Tra una seduta e l’altra aveva creato anche delle basi di appoggio in cui venivano poste le
innumerevoli bomboniere, ricordo di ricorrenze varie. Troneggiava tra queste una lampada
con tanti fili che si accendevano e cambiavano colore e chiunque venisse a casa era tentato di
passarci la mano, tra quei fili cangianti. Fili di luce che a tratti illuminavano i quadri appesi
alle pareti, erano quadri ricamati a mezzo punto da me e da mia sorella, raffiguravano donne
coi libri in mano o paesaggi campestri e dietro la loro realizzazione c’erano ore di paziente e
laborioso lavoro tra mille fili colorati. Altri fili li ritrovavi sui cuscini appoggiati sui divani…
Fili di punto in seta minuziosamente ricamati da mia madre, erano bouquet di fiori che
sembrava potessi cogliere!
Alla sinistra del lungo divano prendeva posto una piccola libreria con la Treccani,
l’enciclopedia per eccellenza. Tanti volumi che racchiudevano scienze, lettere ed arti ed
arricchita da altri volumi di aggiornamento. L’avevano pagata a rate da uno di quei
rappresentanti porta a porta e andavano fieri dell’acquisto fatto, seppur con tanti sacrifici. Era
di un bordeaux lucido bordato oro, faceva arredamento ma i miei non l’avevano comprata per
questo ma per permetterci di poter fare le nostre ricerche. Una buona scusa per poter entrare
in quel salone in cui avevamo vietato l’accesso se non quando venivano amici e parenti a farci
visita.
Al centro un grande tavolino di vetro, con centrini che se non spolveravi per un po’
tracciavano il loro disegno! Su di essi un massiccio posacenere di cristallo, il portadolci
chiuso con il coperchio anch’esso di cristallo e un grande vassoio d’argento, eredità dei nonni.
Due porte finestre con tende, mantovane e porta-embrasse ti immettevano in un lungo
balcone che quando passava il santo patrono in processione potevi toccarlo e, in
quell’occasione, parenti e amici salivano su da noi per prendere un caffé, servito su un grande
vassoio con il servizio buono e i cucchiaini d’argento, accompagnato da dolcetti vari.
Ma in quel piano la cucina non c’era…
Dovevi salire su per le scale per ritrovarti in cucina. E prima di arrivare in quel lungo e stretto
cucinino, così lo chiamavamo, dovevi attraversare la sala da pranzo con il suo tavolo tondo e,
da una porta a soffietto in plastica, finalmente entravi e ti inebriavi di odore di caffé.
La moka stava sempre lì, pronta a fare il suo lavoro, con il suo manico di bachelite che se non
stavi attento a regolare il gas si surriscaldava. Accanto, sul ripiano di formica, il contenitore
in latta con chiusura ermetica contenente il caffé macinato. Eh sì, perché mia mamma lo
sapeva bene che il tipo di barattolo dove conservare il caffè fa davvero la differenza. Non
puoi conservarlo in un barattolo trasparente, in quanto la luce accelera il processo di
invecchiamento, alterandone la qualità e la freschezza. Ecco perché bisogna tenerlo al riparo
da aria, umidità e calore, al fine di preservare le caratteristiche aromatiche il più a lungo
possibile.
Credo che mia mamma avesse sapientemente scelto e acquistato questa latta nello stesso
posto in cui comprava il caffè. E non era una bottega perché lì vendevano quello nei
sacchetti, già confezionato e, invece, lei ci teneva che glielo macinassero davanti, per questo
lo prendeva sempre nello stesso posto. Era una torrefazione in corso Italia, salendo sulla
destra, ci entravi da una porticina e quando eri dentro ti inebriavi di odori. In bella vista
chicchi di caffè che venivano tostati, miscelati per ottenere tanti gusti, tanti odori, profumi
diversi.
Cambiavano anche i prezzi a seconda della miscela e lei, ancora oggi, dice che ne sceglieva
una che non costava “né picca né assai”! Ma non poteva non comprarlo lì perché mio padre,
grande bevitore di caffè, si sarebbe accorto se lo avesse comprato in bottega, gia’
confezionato.
E lo rivedo ancora, soleva bere il suo caffé proprio in quel cucinino. Stava lì, ritto, all’impiedi
davanti a quella piccola finestra bevendo il suo caffé, lentamente, e si accendeva la sua
sigaretta. Fumava Nazionali senza filtro, non so perché… Forse perché costavano meno o
perché si gustava tutto il gusto del tabacco. Non glielo chiesi mai. Aspirava il fumo della
sigaretta, tenendo la tazzina in mano. A volte lo finiva e ne aggiungeva un altro po’, tutto
immerso nei suoi pensieri, guardando fuori… Non ho mai saputo se fosse consapevole della
fortuna che aveva o se i suoi occhi guardassero solo per vedere l’ora.
Tra i tanti tetti si riusciva a vedere nitidamente l’orologio della chiesa di San Giorgio che con
i suoi rintocchi scandiva il tempo. Non credo mio padre sapesse che stava guardando un bene
protetto dall’Unesco, mirabile esempio di arte barocca. A lui importava della sua sigaretta
mirabilmente accompagnata dal suo caffé!
E quel caffé bevuto lì in solitudine non era lo stesso di quello che mia mamma preparava per i
suoi ospiti che l’attendevano giu’, nel salone. Lo preparava con cura e poi giu’ per le scale con
la moka in mano, stando attenta a che non se lo rovesciasse addosso.
Il vassoio con le tazzine del servizio buono erano pronte ad accogliere quella bevanda
ricavata da semi torrefatti e macinati in polvere e gli ospiti gradivano quell’offerta ma credo
che non lo gustassero a fondo, almeno non come facesse mio padre nel cucinino, solo con i
suoi pensieri.
Gli ospiti erano distratti dalle chiacchiere, dal vociare che arrivava dalla strada, i bambini che
giocavano nel lungo balcone, aspettando che il santo passasse.
Una voce all’improvviso: “Arrivano!”
Di fretta, gli ospiti posavano le loro tazzine, uscivano fuori in balcone ed ecco cominciare a
sentire il rullo dei tamburi che annunciavano l’arrivo degli sbandieratori con i loro mille
colori.
Stupiti, grandi e piccini vedevamo sventolare quelle bandiere e, quando le lanciavano in aria,
potevamo quasi toccarle ma arretravamo di un passo per paura di essere colpiti.
Che ressa in quel lungo balcone! E quanti “oh!” di meraviglia, spenti – poi – dall’arrivo di San
Giorgio con il suo cavallo bianco. Era vestito come un antico soldato, armato di una lancia
d’argento pronta ad uccidere il terribile drago. Era portato a spalla dai fedeli e si faceva strada
tra luminarie dai colori vivaci, tra le confraternite con i propri stendardi e gonfaloni. Dietro il
santo la banda musicale sfilava con orgoglio, ostentando gli strumenti lucidati di tutto punto.
Clarinetti, grancasse, piatti, tamburi, trombe e tromboni suonati con passione da uomini in
giacchetta che rallegravano la folla di devoti, attorniata da un nugolo di ragazzini in corsa.
E noi lì a guardare la processione passare, qualcuno a fischiettare i melodici e ritmati
motivetti e tutti a farsi il segno della croce, non so se per augurio o per scongiuro.
Passata la processione i bambini rimanevano in balcone a giocare, i grandi entravano e c’era
chi chiedeva ancora del caffé che mia madre prontamente serviva.
Era tutto così spontaneo, sincero e il caffè, di certo, accompagnava questi momenti di
condivisione, tranquillità e gioia. Una piacevole pausa in una domenica di festa, quella del
Santo patrono, annunciata di buon mattino dal suono delle campane e dallo sparo di colpi a
cannone.
Era un vero e proprio momento di convivialità, caratterizzato da allegria e spensieratezza di
grandi e piccini. Il tutto scandito dal tintinnio dei cucchiaini d’argento che sbattevano dentro
le tazzine di caffé, sembrava quasi un rito!
Ma certo non era il caffè bevuto da mio padre in quel cucinino! Credo che il suo fosse
veramente un rito, un appuntamento fisso, un lento caffé con il suo odore avvolgente, il
tintinnio del cucchiaino, non certo d’argento, in una tazzina che non era quella del servizio
buono. E poi la sua Nazionale senza filtro, quel fumo che s’innalzava a lente volute… Lo
sguardo perso, fuori da quella finestrella che si affacciava su un panorama superlativo, tra i
tetti il duomo che si stagliava contro un cielo a volte grigio, altre azzurrissimo.
Tutto concorreva a riattivare i sensi e a dargli la giusta carica per affrontare un nuovo giorno.
Non sarebbe stata la stessa cosa senza quel caffé!
Autore: Pina Distefano
Dipinto: Adriana Iacono olio su tela 80×40 cm