Zia Maria

In una vecchia foto del 1930, Maria è una bambina grassoccia con grandi occhi tondi.

Di intelligenza vivace, suo padre la iscrisse all’istituto magistrale: la cultura sarebbe stata dote per un buon matrimonio.

Infatti trovò un marito con una piccola fabbrica di mobili, arricchito con le ricostruzioni del dopoguerra e mia zia entrò a far parte della buona società.

Abitavano un attico in centro a Bologna, ma d’estate le piaceva venire coi figli a trascorrere i pomeriggi in periferia, nella casa d’infanzia: diceva che l’aria buona del giardino in collina era impagabile.

Aveva un rapporto speciale con mio padre: sognatori, amanti dell’arte e della musica, si divertivano a cantare insieme i duetti dalle opere liriche. La mia famiglia andava molto d’accordo con la sua: mio cugino fu un entusiasmante compagno di giochi. Lei sopportava sospirando la sua vivacità, lo fulminava con lo sguardo alle sue “prodezze”. Invece la figlia minore era tranquilla.

Quando venivano in visita, per me non c’erano altri impegni al mondo.

Maria era una persona dolce, generosa nei regali; amava il bello e le nuove esperienze.

A quarant’anni volle imparare a sciare: cadde rompendosi un piede, fu il primo di tanti acciacchi, non le tolsero però mai l’entusiasmo  per la vita. Circa alla stessa età prese la patente e malgrado la sua proverbiale distrazione non ebbe mai incidenti.

Negli abiti era originale, suo figlio la chiamava D’Artagnan per i cappelli che esibiva nelle occasioni importanti: uno con grandi margherite dai colori forti attirò le vespe a perseguitarci durante una cerimonia.

Leggeva molto, andava a teatro, lei e il marito erano amici di alcuni pittori bolognesi, ai loro ricevimenti c’era il mondo intellettuale cittadino.

Giravano il mondo, mi spediva cartoline e io ricambiavo dai miei viaggi più modesti, lei gradiva e mi chiedeva informazioni. Rimasta vedova, continuò a viaggiare insieme ai figli e volle ritornare ancora a New York.

Ho ereditato il suo legame con mio padre: ci siamo scritte spesso, se capitavo a Bologna passavo a salutarla. Le telefonavo, finché le sue condizioni di salute hanno consentito una comunicazione tra noi.

Scriveva poesie, ne inviava a concorsi qua e là per l’Italia, talvolta vinse qualcosa. Allora partiva: era l’occasione di un viaggio e di una esperienza.

Mi donò la raccolta delle sue poesie, che aveva fatto stampare. Lessi con emozione sentimenti romantici, la natura compagna di vita, sogni, rimpianti. Mi chiesi quanto nei suoi scritti ci fosse di esperienze reali e quanto di invenzione, che sensibilità e fantasia avesse nel cuore, dietro il quotidiano della sua vita di madre di famiglia.

La mamma mi diceva: – Sei svampita come lei!-

Quando sua figlia me ne ha annunciato la morte, a novantadue anni, ha ribadito che io le assomiglio più di tutti gli altri parenti. E ciò ha reso più acuto il mio dolore.

Al funerale, nella chiesa ancora vuota ho riletto le sue poesie: le avevo portate con me, volevo così sentirla accanto.

Autore: Renata Pieroni

Dipinto: Mario Occhipinti